Popples

Era l’86, così ad occhio, l’anno di Chernobyl e della prima comunione. Non metterei entrambi gli eventi sullo stesso piano ma ops, temo di averlo fatto. Anche della parotite, ma quella ci interessa—francamente—meno. Dirò solo AHIA, e riuscì a farmi rimandare la comunione di una settimana, risparmiandomi però Chernobyl. Pensa alle volte.

Su Topolino comparve una pubblicità fuorviante, e ringrazio il Dottor Manhattan per averla preservata digitalmente.

La cosa fuorviante stava a sinistra, in realtà; per alcune settimane—all’epoca, queste cose si facevano per bene, altro che rumours sul nuovo iPhone—su Topolino comparì quella palla pelosa senza altre caratteristiche distintive sulla sinistra; invitava me, giovane lettore, a indovinare di che si trattasse.

Quando, alla fine, la bestia pelosa sulla destra si rivelò in tutta la sua curiosa giovialità, fui folgorato: dovevo averlo. Era un peluche. TRASFORMABILE. Dovevo avere lui, e possibilmente molti altri. COLLEZIONALI TUTTI!, diceva praticamente qualunque pubblicità all’epoca, che si trattasse di soldatini o di yacht di cinquanta metri.

Erano tempi strani, in cui era un po’ curioso che un maschietto giocasse con i peluche; ricordo di aver avuto almeno un paio di amici con la medesima passione, ma tutti ne parlavamo in gran segreto e un po’ ci vergognavamo, come oggi ci si vergogna di certa musica o di certe letture, con quell’atteggiamento un po’ snob da “certi media io non li consumo, signora mia”.

Com’è, come non è, la scimmia era potentissima e iniziai a stalkerare (o meglio, iniziai a rompere le scatole a mia madre perché mi portasse a stalkerare) il giocattolaio di fiducia, che mercoledì prossimo li avrebbe di sicuro avuti.

No, non quel mercoledì lì, quello dopo.

No, hai capito male, neppure quello dopo; quell’altro, ecco.

No, in realtà parlavo del mese prossimo.

Ok, ora ce li abbiamo.

Pare strano, ma all’epoca era così che funzionava; ben lungi dalle date nette a cui siamo abituati oggi, non sapevi mai esattamente quando un giocattolo di cui avevi visto la pubblicità sarebbe stato nei negozi, né sapevi esattamente quanto ci sarebbe rimasto; fin troppe volte mi ero innamorato, con la passione di cui era capace un ragazzino lievemente maniacale (in senso buono, se esiste un senso buono) come me, di un giocattolo di uno o due anni prima e lo avevo chiesto come regalo di compleanno. I miei genitori, rassegnati, sapevano che questo li avrebbe costretti a pellegrinaggi infiniti in tutti i negozi della Liguria alla ricerca di un qualche fondo di magazzino.

Alla fine, comunque, i Popples arrivarono. Un mercoledì piovoso, in cui mia madre disse “no, io non ti ci accompagno dal giocattolaio con questa pioggia”, ma poi venne commossa da occhi lacrimosi tipo la nota emoji e da dichiarazioni di tristezza infinita.

Quindi alla fine ebbi la mia Pretty Popple, viola, con gli occhi verdi e le ciglia lunghe—era una lei, sapete. Me ne innamorai moltissimo, ovviamente: la chiamavo “PRÈTTI”, perché non andavo ancora alla British School; però scoprii presto che significava “carina” e cielo, ovvio che era carina, era carinissima!

E seguirono Puffball, Potato Chip (una signorina pure lei, per favore niente giochi di parole), PC (…ma che razza di nomi…), Putter… e un paio di mini Popples, perché in quei tempi oscuri tutto doveva essere miniaturizzato: MicroMachines, MicroTransformer, MicroNauti, MicroGigantiEnormi.

No, con i MicroGigantiEnormi sto minchionando.

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