Satori da treno

Satori non è il termine adatto. Non si illumina proprio nessuno, quando vado in stack overflow (come dicevo ieri), tanto meno io.

Talora, la mia mente mi infastidisce. Non sono il solo: c’è chi trangugia, aspira o si inocula una varietà di sostanze per ottenere il fine che qualche volta mi prefiggo. Porre una fine a questi vaneggiamenti continui, avere un attimo di pausa in cui non esista nulla se non quiete. Anche un senso di unità con il tutto non fa schifo, intendiamoci.

Quando c’è troppo rumore di fondo nei miei pensieri, ricorro a trucchi più economici degli stupefacenti, anche se ovviamente meno efficaci. Ma son palanche, come si dice.

Guardare fuori dal treno, e cercare di immergersi nel paesaggio. Ogni secondo tocco una ventina di vite diverse che pulsano da finestre e vasi di fiori. Soffermo la mia attenzione sulla mia posizione nel mondo, e la posizione è già cambiata. Sono all’interno di tonnellate di metallo che vibrano ritmicamente, una forza che non posso neppure comprendere: non è un temporale, ma immaginare di fermare un E636 con un cazzotto è una cosa che ti avvicina al concetto di budino.

La mia mente si fa fregare dal ritmo. Funziona anche la fotocopiatrice, o la goccia del rubinetto che perde. Il rumore del treno, però, è insostituibile: senti la vibrazione provenire da ogni direzione, ne fai parte.

Ogni tanto partecipare della velocità della locomotiva provoca un senso di esaltazione. Come la pulce sul dorso dell’elefante: «Cazzo, andiamo forte, eh?». Altre volte, io sono il paesaggio e rimango immobile, incurante di quel rottame traballante.

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