Autoevocazione (ancora sull’evocazione)

La scarsa efficacia di esperimenti come scalini è da imputarsi alla differenza tra le immagini che io ho nella mente e quelle che hanno nella mente gli altri. Parole che per me sono evocative per altri non significano nulla, semplicemente per la differenza tra le reciproche esperienze.

Il Giappone dei miei pensieri non ha nulla in comune con il reale Giappone, né con l’immagine che si forma nella tua mente quando leggi la parola “Giappone”. Nonostante questo abisso, qualche evocatore molto bravo riesce a catturare un frammento di realtà ed a descriverlo con un dettaglio tale da provocare risonanza.

E’ difficile provocare risonanza negli altri descrivendo cose inesistenti; per uno scherzo della natura è invece facilissimo provocarla in noi stessi.

Abbiamo un ideale di come dovrebbe essere il mondo che è uno strano patchwork di desideri inespressi e idealizzazioni provenienti da chissà dove, e rimaniamo delusi se il mondo si discosta dall’ideale. Peccato che l’ideale non esista, il mondo sì.

Un esempio? La donna ideale. Jung la chiamava Anima, e la annoverava tra i complessi. Esiste anche un Animus: non crediate, voi fanciulle, di poter restare ai margini del discorso.

Eppure questa capacità di illudersi, questo velo di Maya che sentiamo talmente opprimente da spingerci, ogni tanto, a chiederci se non sia tutto un sogno, è una delle imperfezioni che ci rende perfetti.

O che ci fa vivere infelici, se cediamo troppo spesso alla tentazione di immergerci nell’irrealtà.

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